Dobbiamo un po’ tornare su quanto ho scritto, perché non vorrei passasse un messaggio sbagliato.
Non dobbiamo criminalizzare il giornalista, come figura. È spesso un sottoproletario, mal pagato. Con un’istruzione qualche volta approssimativa è chiamato a cimentarsi su tutto, e anche alla svelta, perché quello su cui si è velocemente documentato ieri, oggi non è più buono. All’interno delle ‘echo chambers’, di cui i giornali hanno bisogno per sopravvivere perché rinforzano le opinioni dei partecipanti a quell’orizzonte chiuso di opinioni, il giornalista rischia di essere, nel processo della comunicazione, la prima vittima di quello che gli specialisti chiamano ‘effetto Dunning-Kruger’, cioè quella patologia, che ci riguarda tutti in realtà, per cui individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie capacità e si sentono genuinamente esperti in materia.
«Un vero giornalista: spiega benissimo quello che non sa» (Leo Longanesi)
È esattamente il contrario della Saggezza di Socrate. Chi studia, sa che è difficile dare un’opinione, e sa che è difficile approfondire un solo argomento: preferisce tacere e rimanere all’analisi, senza necessariamente formarsi un’opinione. L’incapace è invece convinto che basti l’opinione, anche quella altrui, per evitarsi la fatica dell’analisi. In Italia sei italiani su dieci, è la notizia di qualche tempo fa, legge un libro ogni anno. Non credo occorra aggiungere altro. Lo si è chiamato ‘anti-intellettualismo’: l’ignoranza vale una conoscenza strutturata. Due opinioni alla pari di cui bisogna aver rispetto, questo ci confeziona il politicamente corretto.
«Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga» (Albert Londres)
No. Qua dobbiamo essere scorretti e ribelli. E far guadagnare al giornalismo la sua missione originaria. Informazione e formazione. Questa è la scommessa, questa è l’utopia.
